Lunedì, 15 Luglio 2024 10:25

Da Scotellaro a Leogrande. Su un libro di Marco Gatto

Scritto da Mariantonietta Sollazzo


«Ripoliticizzare Scotellaro» (p.15): è questa la prima ed assertiva frase con cui Marco Gatto ha scelto di aprire il suo saggio Rocco Scotellaro e la questione meridionale. Letteratura, politica, inchiesta (Roma, Carocci, 2023, pp. 165, €19.50). Due semplici parole che non lasciano dubbi circa il vero scopo, il fine ultimo di quest’opera: scardinare la mitizzazione di Scotellaro e lo stigma che negli anni lo ha relegato a mero poeta-contadino. La volontà che Gatto esprime sin dalle prime battute, mediante una chiara, netta e mai banale scrittura che non lascia spazio alle ambiguità, è quella di restituire complessità e valore letterario alle opere di un meridionalista che non si improvvisa scrittore ma che invece incarna l’idea gramsciana di intellettuale-organico (pur essendo militante del PSI), si fa mediatore tra i ceti dominanti e le classi subalterne, tra l’economia capitalistica e le istanze della lotta popolare. Il saggio ripercorre in tutti e cinque i suoi capitoli la breve ma intensa esistenza dello scrittore lucano, seguendo un filo rosso cronologico ed evidenziando il costante intreccio tra sfera politica e letteraria.

Appartenente alla generazione degli anni difficili, «quella degli intellettuali […] nati attorno agli anni Venti del secolo scorso e formatisi sotto il cielo soffocante della dittatura fascista» (p. 19), Rocco Scotellaro afferma, al contrario, sin dagli anni liceali la propria identità antifascista ma anche il suo amore per i classici greci e latini, sintomo quest’ultimo del fatto che il giovane lucano nasca con un animo proteso sì alla militanza, ma in primis alla scrittura e alla letterarietà, e che perciò decida di formarsi proprio in questa direzione, nonostante le perplessità dei suoi familiari.

La scelta di tesserarsi al PSI, l’interesse per le questioni sociali legate al mondo dei subalterni e dei braccianti, alla scuola e alla sanità, l’impegno politico assunto in prima linea come sindaco di Tricarico hanno definito la sua vita e insieme anche le sue opere (letterarie e non); in Scotellaro vi è una continua ambivalenza tra l’uomo politico e il letterato ed entrambe le figure hanno sempre convissuto rendendolo giorno dopo giorno un intellettuale al bivio, in costante dialettica tra i due mondi.

Dagli esordi con Lucania e altre poesie dell’epoca giovanile fino al tempo più maturo dell’inchiesta sociale raccolta in Contadini del Sud, Scotellaro-poeta parla incessantemente della sua gente e dei suoi luoghi e lo fa servendosi delle pratiche della mediazione e della mimesi, tecniche letterarie che hanno come modello irrinunciabile Giovanni Verga. Secondo la tesi riportata da Gatto e sostenuta da molti studiosi (tra cui Pasolini), infatti, Scotellaro non è un contadino che, ad un certo punto, preso dalla volontà di riscattare la propria terra, prende istintivamente la parola; egli è invece un intellettuale che, per prestigio sociale, ha già diritto di parola e che, servendosi di tale privilegio borghese, tramite la tecnica verghiana del regresso, discende verso il mondo popolare, si immedesima in esso e risale in direzione della cultura alta attraverso una rappresentazione mimetica dotata di grande originalità e che lascia trasparire tutto il suo genio poetico. Nel prologo de L’uva puttanella, ad esempio, si sintetizza tutto il modus operandi e l’essenza della denuncia scotellariana, che passa inevitabilmente per queste tecniche narrative: «io e il mio paese meridionale siamo l’uva puttanella, piccola e matura nel grappolo per dare il poco succo che abbiamo».

Nelle sue opere vi è quindi un progressivo passaggio da un io ad un nuovo Noi volto a rendere Scotellaro partecipe di una comunità inascoltata di cui sceglie di farsi portavoce nei suoi scritti come intellettuale-organico, empatizzando e diventando parte della collettività che descrive; emblematico esempio ne è la poesia È fatto giorno in cui il poeta scrive: «È fatto giorno, siamo entrati in giuoco anche noi», dove si può notare l’idea di una coralità (tra il popolo lucano e il suo sindaco-scrittore) che però non diventa mai massa informe in quanto non rinuncia all’identità di ciascuno dei suoi singoli componenti.

Il profondo Sud diventa così parte di una demartiniana Storia in atto: i cafoni lucani non sono più solo anonimi tasselli in una indistinta bolgia come quelli descritti nel Cristo di Levi, ma uomini in carne ed ossa demistificati, dotati di personali vizi e virtù che iniziano ad avere volti e nomi, storie individuali, sfumature e zone d’ombra e che non sono più solo statuari emblemi di lotta e volontà di riscatto. Il tentativo è dunque quello di costruire un rapporto rinnovato ed autentico tra popolo e intellettuali, libero da ogni forma di pietismo e non falsato. Andando al di là dello storicismo borghese leviano e della sterile letteratura popolare da consumo, Scotellaro rifiuta l’idea socialista di autonomia del popolo nelle lotte di emancipazione e si avvia verso un asse gramsciano-de martiniano che vede l’intellettuale al centro di una mediazione sociale e letteraria, nonché promotore del folklore progressivo, visto come «un’occasione di pedagogia generalizzata, emancipativa e democratica – “un efficace modo di educazione culturale” – e di farne, con forte eco gramsciana, “un momento importante del nuovo umanesimo in sviluppo”, inserendone il contributo culturale in una visione storica allargata e quindi scongiurandone l’isolamento […] entro i confini del pittoresco e dell’esotico» (p. 128).

Nel parlare del percorso politico e letterario dello scrittore di Tricarico, Gatto non rinuncia ad analizzare il controverso rapporto tra Rocco Scotellaro e Carlo Levi. Levi fu un fratello maggiore per il poeta lucano quando egli era in vita (tanto da non abbandonarlo neanche durante l’esperienza del carcere) e primo curatore delle opere di Scotellaro dopo la morte prematura del poeta avvenuta a Portici; ebbe il merito di essere il grande divulgatore dell’esperienza letteraria di Scotellaro ma, al contempo, la figura di Levi è stata quella che più di tutti ha contribuito a costruire l’immaginario erroneo e distorto di un giovane contadino lucano, esempio di un autonomo desiderio di riscatto contadino, che ad un certo punto inizia ingenuamente a scrivere testi e poesie.

Le ragioni di questa strategia promozionale dell’autore del Cristo (il quale era stato militante del Psi insieme a Scotellaro) come ricorda Gatto nel saggio, sono innanzitutto politiche, in quanto alla morte del poeta «emergeva […] un dato: Scotellaro si candidava a rappresentare pienamente quel modello di intellettuale militante su cui Gramsci aveva insistito nelle memorabili pagine dei Quaderni. E tale identificazione nell’intellettuale organico alle classi subalterne rischiava di scontentare, probabilmente, sia i comunisti - che vi vedevano, per così dire, un'invasione di campo - sia i socialisti - che, in fondo, ambivano a elaborare posture intellettuali diverse, di matrice più libertaria. Fu la sensazione comune di trovarsi di fronte a una figura nuova di organizzatore culturale, di militante, di intellettuale concreto, ad agire come punto di incontro tra le due anime della stagione frontista» (p. 146). Di fronte alla siffatta unicità di un autore non incanalabile in nessuno schema precostituito, le teorie su Scotellaro furono dunque per lungo tempo molteplici ma tutte poco critiche ed oggettive poiché politicamente orientate; ed è per questo che la soluzione che molti intellettuali e critici trovarono nell’analizzare le opere di Scotellaro fu quella di etichettare quest’ultimo come un contadino portatore di una poesia semplice e umile, animato da un ingenuo fervore politico.

È proprio alla luce di tali attente riflessioni che nasce l’urgenza di ripoliticizzare Scotellaro, di porre i temi meridionalisti delle diseguaglianze economico-sociali del Sud (ancora oggi purtroppo sempre più attuali), al centro dell’odierno panorama politico-letterario e di analizzare i testi dello scrittore lucano assegnando loro la dignità di opere redatte da un intellettuale che da sempre merita un’attenzione critico-letteraria e sociale appropriata, ma che per troppo tempo invece è rimasto in ombra.

Estremamente interessante è l’analisi conclusiva del saggio in cui Gatto introduce il pensiero di colui che considera l’erede dei nostri tempi di Scotellaro, ovvero Alessandro Leogrande. Scrittore e giornalista lungimirante, Leogrande ha parlato di una mutazione sociale e antropologica sul piano dello sfruttamento della manodopera nelle campagne e allo stesso tempo di una continuità nell’oppressione della classe contadina, che però oggi si riversa prevalentemente sugli stranieri: i nuovi cafoni, soggetti al caporalato e al lavoro nero e costretti a vivere in condizioni disumane molto simili a quelle in cui un secolo fa riversavano i contadini del Sud. Nell’ottica di un mercato libero sempre più globale, capitalistico e concorrenzialmente sleale è il costo della manodopera il primo taglio che spesso viene adoperato da molti imprenditori agricoli, e perciò i braccianti sono sempre più privati del giusto salario e di qualsiasi tipo di tutela sul posto di lavoro. La soluzione presentata da Leogrande e riportata nel testo di Gatto, è quella di una forte alleanza tra braccianti stranieri e contadini poveri: «[…] “ma a patto che la variabile indipendente di questa nuova alleanza siano i braccianti, non i contadini” ovvero gli oppressi e non coloro che partecipano al sistema» (p. 153). Queste considerazioni vanno lette partendo dal meridionalismo di Scotellaro, come richiamo a una storia contadina che non va dimenticata ma anzi ripoliticizzata e attualizzata alla luce delle nuove disuguaglianze sociali.

In definitiva, il saggio di Marco Gatto offre, tramite uno stile accurato e una dialettica decisa, una panoramica più che esaustiva della complessità e delle innumerevoli sfaccettature di un meridionalista, sindaco, poeta, militante e intellettuale dai mille volti, e concorre a restituire finalmente giustizia ad uno scrittore per troppo tempo finito nel dimenticatoio della Storia. Il testo, dunque, esprime la volontà di fare chiarezza e ricordare che è proprio grazie alla penna autoriale di Rocco Scotellaro in quanto intellettuale-organico e mediatore che il popolo lucano ha potuto far sentire la sua autentica voce, fatta di luci ed ombre, di desiderio di contestazione e sconforto, di schiavismo e povertà, e ha potuto dichiarare, in «una comunione di canto» (p. 85): «è fatto giorno, siamo entrati in giuoco anche noi».