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Sanguineti e l’exemplum allegorico: commento alla "Ballata del vento"

Scritto da Angelo Petrella
Edoardo Sanguineti Edoardo Sanguineti

Questo saggio è stato pubblicato in: Gli scrittori d'Italia. Il patrimonio della tradizione letteraria come risorsa primaria, Atti del XI Congresso dell'Associazione degli Italianisti, Napoli 26-29 settembre 2007. A cura di: Cristiana A. Addesso, Vincenzo Caputo, Ornella Petraroli - Redazione elettronica Fabio Curzi. Anno: 2008.

 

L’opera poetica di Edoardo Sanguineti è comunemente tripartita nelle fasi dell’avanguardia, del neofigurativismo e del gioco poetico[1]. Esiste però un nucleo di circa venti testi[2] che taglia trasversalmente tutta la produzione sanguinetiana: sono i componimenti che già nel 1974 Tibor Wlassics indicava come «favole didattiche[3]». A nostro avviso, è preferibile ribattezzare questi testi come exempla allegorici, con un doppio vantaggio: da un lato, l’aggettivo “allegorico” allarga il perimetro della semplice favola e preserva il componimento dalla sfera del simbolico; dall’altro, la nozione di exemplum unisce il valore didattico al senso etico del messaggio poetico. Il genere letterario dell’exemplum, come è noto, non ha una definizione univoca, ma può essere inteso come qualunque «tipo di narrazione e di immagine che serva ad illustrare un concetto morale[4]». Nato con le origini del cristianesimo come strumento di predicazione evangelica, l’exemplum si laicizza a partire dal XII secolo e viene assorbito dalla tradizione letteraria. Il Sanguineti dantista preferisce tra l’altro questa nozione a quella auerbachiana di «figura»: la Commedia infatti attingerebbe all’exemplum medievale che, per il suo carattere didascalico e pragmatico, non si limita a proporre un modello di comportamento ma, proiettandosi in senso escatologico, stimola il lettore all’azione.

La Ballata del vento – uno degli exempla sanguinetiani più rappresentativi – utilizza il medesimo procedimento dantesco operando una messa in scena allegorica delle dinamiche di potere, attraverso un materiale estrapolato dalla cultura medievale (con spiccato riferimento al bestiario infernale e ai trecenteschi Trionfi della morte). Composto nel marzo 1989, questo testo appare per la prima volta nell’edizione complessiva de Il gatto lupesco (Feltrinelli, 2002). Lo schema metrico adottato, in realtà, conserva ben poco della ballata tradizionale: dovremmo parlare piuttosto di un insieme di cinque stanze simili a sestine narrative, dove predominano endecasillabi del tipo a minore e del tipo anti-petrarchesco con accenti di quarta e settima. Le prime quattro stanze hanno schema ABBACC: i versi a rima incrociata corrispondono alle due mutazioni, mentre il distico conclusivo costituisce la volta. Lo schema viene poi stravolto nell’ultima stanza, composta da tre distici a rima baciata. Sparisce la canonica rima tra l’ultimo verso della seconda mutazione e il primo della volta, ma soprattutto sparisce la ripresa, che tradizionalmente conferisce alla ballata il suo senso avvolgente. Ciò che lega le stanze è piuttosto un isomorfismo tematico: le prime tre descrivono una gerarchia di figure emblematiche del potere spazzate via dal vento, la quarta generalizza e sposta il discorso sulla sete di gloria artistica, mentre la stanza conclusiva riassume le precedenti aggiungendovi la morale finale. 

Leggiamo le prime strofe:

 

l’apostolo romano vaticano

triplice tiara si sostiene in testa:

all’angelo cornuto fa la festa,

ma muore come muore il sacrestano:

quando ha esaurito tutte le sue preci,

via se ne va con vento forza dieci:

 

il grande re la sua casa ha imbiancato,

di rosso ha tinto la sua grande piazza:

agita in mano razzi di ogni razza,

ma muore come muore il suo soldato:

quando gli viene l’ultimo spavento,

via se ne va con vento forza cento:

 

giuoca con orso e con toro il barone,

forzalavoro e giorno e notte ingozza:

di verdi carte è gonfia la sua strozza,

ma muore come muore ogni barbone:

quando l’oro gli crepa le pupille,

via se ne va con vento forza mille:

 

A un livello sintagmatico, il tessuto retorico è ricco di assonanze, allitterazioni, paronomasie e figure etimologiche, che conferiscono al testo un tono saltellante e caricaturale; l’insistenza di epifore quali «ma muore come muore» e «via se ne va con vento forza» fornisce inoltre il senso di una coazione a ripetere. Su questa iterazione si innesta, a un livello paradigmatico, un movimento a spirale di climax e anticlimax. In ciascuna stanza vengono infatti confrontati i termini estremi della scala sociale: le tre figure di papa, re e barone, ritratte nell’atto di esercitare il proprio potere, saranno spazzate via dal vento al pari degli individui più umili (sacrestano, soldato e barbone). Quanto più ci si approssima all’ideologia dell’accumulazione capitalistica del denaro (il barone che s’ingozza di forza-lavoro), tanto più grande sarà la forza del vento.

Costante espressiva di queste strofe è l’ambiguità semantica, ovvero la possibilità di una lettura doppia di alcune immagini: nella prima stanza, ad esempio, è descritta l’azione papale del “sostenersi” in testa la tiara (o triregno, simbolo del triplice potere sacerdotale, regale e imperiale). Il verbo può parafrasarsi sia con “tenersi ben saldo” che con “sorreggersi”, alludendo contemporaneamente all’avidità di potere e al grottesco insito nel gesto di reggere un peso enorme sulla testa. Sanguineti, in altre parole, ridicolizza l’ideologia del potere ecclesiastico nel momento stesso in cui la mette in luce. L’uso della tiara imposto da Bonifacio VIII nel 1300, d’altronde, è stato abolito da Paolo VI nel 1964: ciò indica che non vi è allusione ad alcun specifico pontefice e pertanto l’immagine del papa diventa allegoria universale del potere ecclesiastico. Stesso discorso può farsi per la seconda stanza, laddove il re è ritratto nell’atto narcisistico di “imbiancarsi” la casa proprio mentre con dantesca violenza “tinge” di sangue la piazza. In questi versi si cela un probabile riferimento al testo brechtiano de L’imbianchino Hitler – incluso in Canzoni, poesie, cori – in cui il dittatore è descritto nel gesto di intonacare la superficie della Germania, a mo’ dei biblici sepolcri, lasciando dentro il marciume che al primo scroscio di pioggia tornerà a galla. Ma il gesto del re può anche tradursi come riferimento contestuale alla “casa imbiancata” per eccellenza, che è la dimora del presidente statunitense, ovvero di quel paese detentore della forza militare più distruttiva e tecnologicamente avanzata del pianeta. Nella terza stanza, infine, si illustra il gioco del barone «con orso e con toro»: al senso letterale si associa quello metaforico, dal momento che i due vocaboli nel linguaggio borsistico indicano le fasi di continuo ribasso e rialzo del mercato azionario. La lettura di quest’allegoria resta duplice, consentendo tanto un’esegesi iconica quanto una metaforica: l’immagine del barone che gioca con animali, magari come gioco ricercato e stravagante, si accosta a quella ben più aspra di chi si appropria delle fatiche altrui (la marxiana forza-lavoro).

Come visto, le interpretazioni possono essere molteplici senza che si escludano a vicenda: il lettore deve dunque accontentarsi di formulare ipotesi mai definitive. Questo importante indizio ci consente di utilizzare la definizione dell’allegoria secondo le rotte tracciate da Benjamin: allegorico non è soltanto l’uso di exempla figurativi che hanno un senso universale, ma è propriamente il procedimento macrotestuale che impedisce un appagamento dell’interpretazione. Lungi dall’assolutezza intuitiva del simbolo, l’allegoria ha infatti come sua prerogativa l’incessante interrogazione sul proprio significato, ottenuta anche grazie all’attribuzione di un senso sempre “ulteriore” alle immagini. La rifunzionalizzazione del genere letterario della ballata è già di per sé allegorica, così come lo è il recupero del repertorio figurale medievale adattato alle nuove esigenze di una morale laica e materialistica. Spicca qui la connessione con le Tesi di filosofia della storia benjaminiane, in particolare con l’idea di frammento della tradizione strappato dalle mani del conformismo delle classi dominanti, cui tra l’altro Sanguineti già faceva riferimento in un saggio sul Brecht di Benjamin[5]. Ma una teoria letteraria vera e propria la si ritrova ancor prima, nei lontani anni Sessanta di Poesia e mitologia[6], laddove la letteratura è intesa come mitopoiesi d’ideologia: è necessario appigliarsi ai modelli egemoni di una cultura per imbrigliare in essi un potenziale rivoluzionario. Le immagini e figure della tradizione vanno adottate convertendone il segno e dunque trasformandole in allegorie delle contraddizioni sociali. 

Leggiamo le ultime due stanze:

 

e chi parla parole e suoni suona

e affreschi affresca e sculture scolpisce

fame ha di fama che mai non finisce,

ma muore come muore la persona:

quando il salmo gli è esploso tutto in gloria,

salta in aria la carne e la memoria:

 

e tutti andate, con rabbia, danzando,

in nero buco a sparirci ululando:

tu che più lasci più angoscia prendendo,

più peggio cadi, più giù discendendo:

fatti di fiato, fatui fuochi veri,

noi si balla leggieri, volentieri:

 

Un proverbio popolare recita «tutti i salmi finiscono in gloria», che vuol dire «tutti i discorsi mirano all’autocelebrazione e all’utile di chi li pronuncia». La gloria giunge all’artista in modo clamoroso, ovvero “gli esplode”, ma appunto il verbo “esplodere” si lega al «salta in aria la carne e la memoria» del verso successivo: e infatti la morale è che gli artisti ambiscono alla gloria ma muoiono come le persone per antonomasia, cioè le persone comuni. Al proposito, si ricordi la scena di Oderisi da Gubbio della Commedia: «Non è il mondan romore altro ch’un fiato / di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi, / e muta nome perché muta lato[7]».

Sullo sfondo della Ballata del vento possiamo ritrovare una teoria materialistica dell’esistenza, che unisce epicureismo e stoicismo, ovvero piacere della vita e insignificanza dell’esistenza. Come scrive Epicuro nella Lettera a Erodoto (frammento 63): «occorre considerare che l’anima è una sostanza corporea composta di sottili particelle, diffusa per tutto l’organismo, affatto simile a un fiato di vento con alcuna mescolanza di calore». Ogni entità vivente è “fatta di fiato” ed è già dalla nascita un potenziale fuoco fatuo, cioè non un fuoco metaforico, ma propriamente una fiammella “vera” prodotta dalla decomposizione del corpo sepolto nel sottosuolo. I versi della penultima stanza li possiamo glossare con quelli di Codicillo 27 (1984), in cui si legge: «(ti rispondo dal fondo del mio profondo pozzo nero da cimitero, / dove, da goffo gaglioffo, mi abboffo, e nel mio gozzo mi strozzo, con fibromi / da gnomi, dicendo (ridendo) che HIC LATUI, tra i giuochi dei fatui miei fuochi): / (deh, non temere, per piacere, o cara, amabile mia bara».

Il buco nero è dunque la morte, non l’oltretomba: il “cadere peggio” è direttamente proporzionale alla quantità di beni che si è costretti ad abbandonare sul finire della vita. La punizione dei potenti, dunque, non ha luogo nell’aldilà in quanto è immanente alla realtà. Sapendo questo, sapendo cioè che la vita non riserva altro, si scopre anche che è inutile tentare di esorcizzare la morte accumulando ricchezze. I versi dattilici 25, 26 e 28, fortemente ritmici, conferiscono vivacità all’immagine della danza rabbiosa e della caduta nel vuoto. Le modalità del ballo, dunque, diventano il «confine» in senso lotmaniano tra coloro che vengono spazzati via dal vento nel rabbioso tentativo di arcionare l’esistenza per non perdere il potere capitalizzato (il “voi”), e coloro che invece sono fatti di fiato e si lasciano trasportare dal vento come fiammelle, ballando in modo alleggerito e probabilmente sulle rovine di quelli (il “noi”). 

Nello stesso anno di composizione della Ballata del vento, Sanguineti partecipava ai lavori del Gruppo 93 proponendo una nozione di «realismo allegorico […] come immagine dialettica orientante e come puntuale discrimine polemico[8]». Tale nozione associa l’accezione classica e lukacsiana di «rispecchiamento», a quella brechtiana di «didattica». Il tipico di un’epoca non è ciò che simbolicamente ne riassume gli aspetti salienti, ma coincide con l’illustrazione dei reali rapporti di potere tra le classi dominanti e quelle subalterne: scopo della letteratura è illuminare le contraddizioni sottaciute della realtà sociale. Il senso della rifunzionalizzazione della tradizione, cui accennavamo, è ora chiaro: strappare la tradizione dalle mani del conformismo vuol dire illustrare la verità di quella tradizione, sepolta sotto le spire delle ideologie dominanti. Realismo è dunque esplicitazione dei rapporti di potere instaurati di una determinata epoca.

Questa prassi non è necessariamente in contraddizione con la figura del sabotatore letterario, che Sanguineti adotta a partire dalla metà degli anni Ottanta: se qui la poesia si configura come ridicolizzazione dell’istituzione, ma in senso del tutto infra-letterario, con gli exempla si procede piuttosto al sabotaggio e alla messa in discussione dell’ideologia sociale egemone, in un orizzonte anche extra-letterario, che chiama in causa il contesto. Lo stesso Sanguineti dichiara nel 1993: «mi rendo conto della grande distanza che separa questi due momenti, io però non li sento come alternativi o compensativi l’uno dell’altro[9]». L’importanza del terreno figurativo di partenza, grazie a cui è possibile comunicare le verità sociali sotto forma di un «realismo allegorico» contro tutte le scritture falsificate[10], è presto spiegato: dopo l’esaurimento della spinta avanguardistica e dopo il tentativo fallimentare di ricostruzione della realtà su base letteraria, Sanguineti si rende conto dell’importanza di associare al sabotaggio letterario un progetto più «didattico», che permetta di illustrare e divulgare le contraddizioni insite nella realtà sociale. Per far ciò è pertanto necessaria un’ampia base comunicativa e figurativa: le allegorie morali si presentano dunque come nuova forma di realismo, che procede grazie ad exempla e permette di innestare un rinnovato senso politico e divulgativo al fare letterario.

 

 

[1] A. Pietropaoli, Unità e trinità di Edoardo Sanguineti. Poesia e poetica, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1991.

[2] Si tratta precisamente di: Erotopaegnia 3, 4 e 6; Purgatorio de l’Inferno 9 e 10; Ballata delle controverità, Vota comunista, Ballata dei proverbi, Contromarcia in forma di contraddanza inclusi nella sezione Fuori catalogo (tutti raccolti in Segnalibro); il poemetto Novissimum Testamentum, l’intero ciclo delle Ballate, i testi Brindisetto fiscale e Laudes rerum universarum inclusi nella sezione Fanerografie (tutti raccolti in Il gatto lupesco).

[3] T. Wlassics, Edoardo Sanguineti, in Letteratura italiana. I contemporanei, a cura di G. Grana, Marzorati, Milano 1974, vol. V, pp. 1929-30.

[4] C. Delcorno, Dante e l’“Exemplum” medievale, in «Lettere italiane», 1, 1983, p. 5.

[5] E. Sanguineti, Brecht secondo Benjamin, in «Il Verri», 12, 1978.

[6] E. Sanguineti, Poesia e mitologia, in Tra liberty e crepuscolarismo, Mursia, Milano 1961.

[7] Purg. XI, 100-2.

[8] E. Sanguineti, Per una poetica di “realismo allegorico”, in Gruppo ‘93. La recente avventura del dibattito teorico letterario in Italia, a cura di F. Bettini e F. Muzzioli, Manni, Lecce 1990, p. 70.

[9] F. Gambaro, Colloquio con Edoardo Sanguineti. Quarant’anni di cultura italiana attraverso i ricordi, Anabasi, Milano 1993, p. 210.

[10] E. Sanguineti, Per una nuova figurazione, in «Il Verri», 12, 1963, pp. 96-100.