Venerdì, 13 Gennaio 2017 12:50

Primo Levi, "Versamina" o l’apologia del dolore

Scritto da Simone Andrea Camilli

Versamina fa parte di Storie Naturali[1]. Fra i racconti di Primo Levi è quello che affronta in maniera più diretta la tematica del dolore e della sofferenza all’interno della vita dell’uomo. La storia gode della capacità, tipicamente leviana, di porre il lettore dinanzi ad un dilemma etico di difficile scioglimento di cui tuttavia l’autore, in controtendenza con il suo modus operandi, propone nel finale una soluzione in chiave moraleggiante. Versamina, per la complessità e l’ambiguità insita nel tema affrontato e per le soluzioni stilistiche adottate, è uno dei racconti meglio strutturati e più riusciti di tutto il microcosmo narrativo creato dallo scrittore.

La vicenda alla base della storia è legata alla figura di Kleber – un anonimo chimico di un non meglio precisato Istituto – e alla scoperta, da parte di quest’ultimo, di una sostanzacapace di convertire il dolore in piacere, da cui il titolo del brano. Tutta la narrazione poggia le sue basi sulla presenza di due figure secondarie (Dessauer e Dybowski) che, tuttavia, sono introdotte per prime all’interno del racconto e sono utilizzate da Levi sia come pretesto indispensabile per dare voce ad avvenimenti legati ad un personaggio (anch’esso inventato) già defunto, sia per introdurre modi di pensiero e punti di vista più vicini a quelli della persona comune e del lettore. Le premesse rendono indispensabile il lunghissimo flashback di cui Dybowski si serve per riportare alla luce i fatti, anche abbastanza complessi, che hanno portato alla morte molto probabilmente non casuale e anzi autoindotta del protagonista. La short story, a livello strutturale, conta ben tre sezioni introduttive: la prima è incentrata su una riflessione legata alla maggiore longevità cui va incontro chi si dedica ad un mestiere che “consista nel conservare qualcosa”[2]; la seconda è utile all’autore per introdurre i personaggi deputati al racconto della storia e la terza, infine, svela l’ambientazione di riferimento e il protagonista. Di queste sezioni è da notare una frase che Levi riporta per bocca di Dybowski, il quale ripropone un concetto chiave del lavoro leviano sui propri racconti, riconducibile all’idea del “onesitting”[3]: il narratore interno, infatti, nel chiedere all’interlocutore la disponibilità di quest’ultimo ad ascoltare la sua storia pronuncia: “Ha mezz’ora di tempo? Venga con me, gliela racconto”[4].

La seconda e la terza sezione introduttiva presentano rapidamente Kleber (la superficialità con cui è introdotto è giustificata dall’amicizia che legava l’ascoltatore al protagonista), ma soprattutto l’ambientazione. La vicenda si svolge in un tempo che, sebbene non sia precisato, è facilmente riconducibile al periodo del secondo dopoguerra. Sebbene la prima frase pronunciata da Dybowski non sciolga l’ambiguità, i danni descritti, causati dall’aviazione, sono ingenti e colpiscono il centro cittadino:

– Eh sì – disse – quando passa l’uragano sono le piante più alte quelle che cadono. Io sono rimasto: si vede che non davo noia a nessuno, né ai russi, né agli americani, né a quegli altri, prima -. Dessauer si guardava intorno: molti vetri mancavano ancora alle finestre, molti libri dagli scaffali, il riscaldamento era scarso, ma l’Istituto viveva[5].

 

Seguono un elogio del lavoro come fonte di apprendimento e rinnovamento (“Quarant’anni che lavoro qui dentro, vuole che non abbia imparato proprio niente? A lavorare senza imparare non c’è soddisfazione”) e una critica a giornali e giornalisti (“Non che spiegassero le cose bene, sa come sono i giornalisti”), prima che venga introdotta una definizione semplice ma efficace della versamina:

Perché adesso lo avrà capito vero? È stato Kleber stesso a chiamarle versamine: quelle sostanze che convertono il dolore in piacere[6].

 

Nel presentare le proprietà della sostanza sintetizzata dal protagonista, Levi esprime l’ennesima nota di biasimo verso la società contemporanea, soprattutto verso la scienza e i suoi esponenti, capaci di promettere progresso e innovazioni senza tener conto degli inevitabili effetti collaterali che le rivoluzioni nella tecnica portano fisiologicamente con sé:

 

Kleber si accorse subito che con certi gruppi sostituenti, neanche poi tanto fuori mano, si poteva fare molto di più: un poco come la faccenda della bomba di Hiroshima e delle altre che vennero dopo. Non a caso, vede, non a caso: questi credono di liberare l’umanità dal dolore, quelli di regalarle l’energia gratis, e non sanno che niente è gratis, mai: tutto si paga[7].

 

La narrazione entra nel vivo quando emergono le descrizioni degli esperimenti condotti da Kleber, il quale scopre la versamina grazie a casualità e spirito d’osservazione. Una dose minima è assunta erroneamente dallo stesso Dybowski che, a causa della povertà dilagante del dopoguerra, mangia un coniglio morto per cause sospette dopo che quest’ultimo aveva assunto una bassa dose di B/41. Venute a galla le proprietà della sostanza, mentre il chimico prosegue nel tentativo di creare un composto perfezionato, Dybowski – che collabora con lui – ottiene di poter osservare e prendere nota del comportamento delle cavie. Attraverso le parole dell’assistente, Levi introduce semplici pareri, ma anche impressioni piuttosto oscure che rendono l’ambiente della storia opprimente ed enigmatico. Lo scrittore, inoltre, descrive minuziosamente ogni step fra l’assunzione del composto e gli effetti che questo produce, stilando una sorta di rapporto scientifico sul caso:

 

A guardarli era una cosa orribile e affascinante. Ricordo un cane lupo, per esempio, che volevamo conservare in vita a tutti i costi, suo malgrado, perché sembrava che non avesse altra volontà se non quella di distruggersi. Si azzannava le zampe e la coda con ferocia insensata, e quando gli misi la museruola si mordeva la lingua. Dovetti mettergli in bocca un tampone di gomma, e lo alimentavo con iniezioni: allora lui imparò a correre nella gabbia, e a picchiare contro le sbarre con tutta la forza che aveva. Prima picchiava a caso, con la testa, con le spalle, ma poi vide che era meglio picchiare col naso, e ogni volta uggiolava di piacere. Dovetti legargli anche le zampe, ma non si lamentava, anzi, scodinzolava tranquillo tutto il giorno e tutta la notte, perché non dormiva più. Aveva ricevuto un solo decigrammo di versamina, in una sola dose, ma non guarì più: Kleber provò su di lui una dozzina di supposti antidoti (aveva una sua teoria, diceva che avrebbero dovuto servire per non so che sintesi protettiva), ma nessuno ebbe effetto, e il tredicesimo lo uccise[8].

 

La morte delle cavie finisce per preoccupare Dyboswki che invita il chimico a procedere con cautela e a usare prudenza nella divulgazione della scoperta. Tuttavia, come accade in quasi tutti i racconti leviani incentrati sull’introduzione di un’innovazione tecnica – in questo caso farmacologica – il protagonista è vinto dalla prospettiva di arricchimento personale e nel caso specifico rende pubblico, vendendolo ad un’azienda privata[9], il composto da lui sintetizzato. La situazione peggiora perché Kleber stesso assume il composto, dando il via al percorso degenerativo che lo condurrà alla morte, non senza prima affrontare un lento e doloroso processo di disumanizzazione:

 

Smise di fumare e si grattava: scusi se parlo così, ma le cose bisogna chiamarle col loro nome. Veramente, davanti a me continuava a fumare, ma io vedevo bene che non aspirava più il fumo, e non lo guardava quando lo soffiava via; e poi, i mozziconi che lasciava nel suo studio erano sempre più lunghi, si vedeva che accendeva, tirava una boccata così per abitudine, e li gettava via subito. Quanto poi al grattarsi, lo faceva solo quando non si sentiva osservato, o quando si distraeva; ma allora si grattava in un modo feroce, come un cane, appunto, come se volesse scavarsi. Insisteva sui posti dove era già irritato, e presto ebbe cicatrici sulle mani e sul viso. Non saprei dirle del resto della sua vita, perché viveva solo e non parlava con nessuno, ma credo che non sia un caso se proprio in quel periodo una ragazza che telefonava spesso cercando di lui, e qualche volta lo aspettava all’Istituto, non si fece più vedere[10].

 

Il rovesciamento del binomio dolore/piacere, inoltre, induce il protagonista a non distinguere più gli stimoli sensoriali utili a percepire le differenze basilari, come quella fra caldo e freddo o fra amaro e dolce. L’incidente fatale in cui Kleber incappa alla guida della sua auto è la conseguenza diretta, secondo Dybowski, della sopraggiunta incapacità del protagonista di ricongiungere significato e significante, nel caso specifico di identificare la differenza che, nella segnaletica stradale, intercorre fra il verde e il rosso di un semaforo. Prima di interrompere il racconto, il narratore precisa che “fra le tante cose sbagliate, Kleber ne ha fatta una giusta: poco prima di morire ha distrutto tutto il dossier delle versamine, e tutti i preparati su cui ha potuto mettere le mani”[11].

La conclusione del discorso diretto guidato da Dybowski coincide con l’inizio della trasposizione dei pensieri di quest’ultimo: un’eccezione alla norma generalmente adottata da Levi per i suoi racconti. Lo scrittore, infatti, inserisce – attraverso una sorta di flusso di coscienza[12] - il suo personale punto di vista sulla vicenda:

 

pensava una cosa che non aveva pensata da molto tempo, poiché aveva sofferto assai: che il dolore non si può togliere, non si deve, perché è il nostro guardiano. Spesso è un guardiano sciocco, perché è inflessibile, è fedele alla sua consegna con ostinazione maniaca, e non si stanca mai, mentre tutte le altre sensazioni si stancano, si logorano, specialmente quelle piacevoli. Ma non si può sopprimerlo, farlo tacere, perché è tutt’uno con la vita, ne è il custode […] pensava che, se le versamine sanno convertire in gioia anche i dolori più pesanti e più lunghi, il dolore di un’assenza, di un vuoto intorno a te, il dolore di un fallimento non riparabile, il dolore di sentirti finito, ebbene, allora perché no?[13].

 

In un racconto in cui il protagonista cerca in tutti i modi di fuggire il dolore, facendolo apparire come una delle maggiori calamità umane, il finale progettato dal Levi-narratore poggia interamente sul rifiuto delle posizioni, pur condivisibili, di Kleber. L’apologia del dolore ideata dallo scrittore si impone sull’utopistica visione del suo protagonista: il dolore non rappresenta nulla di eroico, non è il mezzo per attuare una catarsi, non è neppure da disprezzare. È “il custode”[14] dell’esistenza umana e ne garantisce gli equilibri, anche quando può diventare insostenibile per intensità o durata nel tempo.

Levi in Versamina chiude un cerchio[15]: riflette sull’uomo, sulla sua trasformazione, sulle sue debolezze, ne esplora la corruttibilità e la degenerazione, continua a riferirsi alla brutalizzazione tipica del Lager per riproporla a piccole dosi nella società da lui ricreata, in tutto e per tutto aderente a quella reale. In questo racconto, però, il chimico torinese osa anche di più, perché medita non solo sull’uomo in generale, ma scende nel particolare, analizza contemporaneamente l’uomo che si deforma e che convive con un dolore costante, implacabile, “che non conosce pace”[16].

Si potrebbe sostenere che Versamina sia la short story in cui lo scrittore riversa – e forse rivela integralmente – la chiave di lettura non della sua opera, ma del suo pensiero. Analizzato contestualmente alle decine di tracce testimoniali presenti nelle opere sul Lager che lo precedono e lo seguono, il racconto funge da anello di congiunzione fra i tentativi dell’autore di ricercare inconsciamente una spiegazione del dolore causato o subito e la speranza, mai effettivamente abbandonata, di poter dare un senso ad una condizione che, nelle dinamiche testuali prese in esame, diverrà insostituibile mediatrice nel gioco dei fragili equilibri umani.

 

Riferimenti bibliografici

Opere

L’edizione di Se questo è un uomo cui si fa riferimento è quella pubblicata da Einaudi nel 2014, con prefazione di Cesare Segre. Pubblicata sempre da Einaudi, l’edizione de I sommersi e i salvati presa in esame è quella del 2014, con prefazione di Tzvetan Todorov e postfazione di Walter Barberis. L’edizione di riferimento de La tregua è quella pubblicata da Einaudi nel 2014.Ai tomi citati sono da aggiungersi due raccolte, entrambe pubblicate da Einaudi. La prima a cura di M. Belpoliti, Primo Levi Tutti i racconti,edita nel 2015. La seconda a cura di E. Ferrero, Ranocchi sulla luna e altri animali, pubblicata nel 2014.

 

Studi critici

Un’opera eccezionalmente ricca e accurata capace di rendere, nella sua interezza, un fedele ritratto del Levi uomo e scrittore è Primo Levi di fronte e di profilo, di Marco Belpoliti. Edito da Guanda nel 2015, ha il merito di porsi quale lavoro enciclopedico sull’autore, risultando inoltre di semplice ed immediata consultazione. Per uno studio mirato della lingua e dell’usus scribendi dell’autore si rimanda a Lingua e scrittura in Levi, saggio di Pier Vincenzo Mengaldo presente in Primo Levi, un’antologia della critica, a cura di E. Ferrero, pubblicato da Einaudi nel 1997.Riguardo l’esame delle caratteristiche del racconto si può fare riferimento allo studio condotto da Raffaele Donnarumma pubblicato nel 2016 in “Il racconto modernista in Italia, teoria e prassi”, intitolato L’altro modernismo: la narrativa breve in Italia. Quest’ultimo risulta particolarmente interessante in quanto permette l’identificazione del ruolo del Levi scrittore di racconti all’interno del mutevole panorama delle short storiesdel Novecento. A questo studio si affianca un altro lavoro inerente l’evoluzione del genere della novella, condotto da Sergio Zatti e intitolato La novella: un genere senza teoria. Apparso in “Moderna”, XII, 2, 2010, pp. 11-24, risulta particolarmente interessante per mettere a fuoco il problema dell’instabilità di un genere cui Levi accorda spesso la propria preferenza, ponendosi quale coscienzioso cultore ed innovatore di un così particolare modo di raccontare la propria esperienza di vita.Sul complesso rapporto instauratosi fra il Levi narratore e le memorie del Lager fa fede un articolodi Orsetta Innocenti, L’ipertesto del Lager. Su alcuni racconti di Primo Levi, pubblicato nel 2005 in “Bollettino ‘900”. L’articolo in questione pone l’accento sulla macrocornice del Lager, cui si riconduce gran parte dell’opera leviana e sulla compenetrazione creatasi fra il passato della detenzione, mai completamente sopito, e il presente reale, in cui Levi scrive.Si segnala inoltre un’opera di Francesco Cassata, Fantascienza?. Pubblicata da Einaudi nel 2016, che ha il merito di ripercorrere le tappe della formazione del Levi autore di racconti e di porre all’attenzione della critica la necessità di riesaminare questa parte dell’opera da un punto di vista strettamente letterario. Per uno studio mirato alla definizione dell’etica in Levi, in particolar modo nella sua memorialistica, è da consultarsi Primo Levi: le virtù dell’uomo normale, di Robert S. C. Gordon, pubblicato in Italia nel 2003.

 

[1] P. LEVI, Storie naturali, Einaudi, Torino, 1966.

[2] P. LEVI, Ranocchi sulla Luna e altri animali, cit., p.18.

[3]E. A. POE, Twice–ToldTales di Hawthorne, cit. in S. ZATTI, La novella: un genere senza teoria,“Moderna”, XII, n. 2, 2010, p. 17.

[4] P. LEVI, Ranocchi sulla Luna e altri animali, cit., p.19.

[5] Ivi, p.18.

[6] Ivi, p. 21.

[7] Ivi, p. 22.

[8] Ivi, p. 23.

[9] L’ OPG, azienda privata di fantasia che tuttavia condivide l’acronimo con gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Essendo stato pubblicato nel 1966, Storie Naturali è tuttavia precedente (di dodici anni) all’istituzione degli OPG, ma non degli ospedali psichiatrici.

[10] Ivi, p. 25.

[11] Ivi, pp. 27-28.

[12] Il pensiero di Dybowski, sebbene non abbracci molte caratteristiche di base del flusso di coscienza, è introdotto, in fase di presentazione, come appartenente alla categoria. Levi scrive: “Qui il vecchio Dybowski tacque […]. Pensava a molte cose confuse insieme, e si riprometteva di smistarle poi, con calma, magari quella sera stessa: aveva un appuntamento, ma lo avrebbe rimandato.” Il pensiero che segue, tuttavia, si dimostra ordinato e coerente, nonché corredato da un’attenta punteggiatura, caratteristiche che lo allontanerebbero dal caratteristico flusso di coscienza. Levi, infatti, si preoccupa di presentare al lettore un pensiero riordinato dall’autore (in modo tale che possa risultare più incisivo ed efficace), rendendo tuttavia evidente il suo intervento attraverso la micro-sezione introduttiva citata a inizio nota.

[13] Ivi, pag. 28.

[14]Ibid.

[15] Il cerchio dell’analisi sull’uomo è rappresentato idealmente dagli scritti che compongono il macrotesto del Lager, a partire da Se questo è un uomo fino ai racconti di Lilìt e altri racconti e a I sommersi e i salvati.

[16] P. LEVI, Se questo è un uomo, Se questo è un uomo, De Silva, Torino, 1947; poi Einaudi, Torino, 1958, p. 1.