Sabato, 05 Aprile 2025 17:09

Walter Siti, un'intervista

Scritto da Walter Siti

 

 

Intervista a Walter Siti 

Walter Siti sta scrivendo un saggio sulla fragilità dei giovani. Dal balcone di casa sua a Milano, si possono
spiare i ragazzi che si affollano in uno di quei posti dove si comprano abiti griffati facendo l’aperitivo e i selfie.
Siti guarda fuori: «Vede la posa, l’abbigliamento, le unghie smaltate per i maschi... È come se fossero sempre
pronti per diventare un’immagine. Non sono quello che sono, ma quello che è bene che siano per i social». Di
questi ragazzi ha già scritto nell’ultimo romanzo, I figli sono finiti, uscito l’anno scorso per Rizzoli, in cui uno
di loro, solitario e geniale, stringe amicizia con un anziano professore, innamorato di un escort palestrato e
capriccioso. Siti racconta che l’ha aiutato un ventenne conosciuto per caso: «Mi ha dato la sua playlist e, per
documentarmi, mi ha portato al Tempio, un club segreto di Milano dove si fanno ammucchiate curiose. E lì
sono stato subito riconosciuto, anche perché mi si notava per un cappotto totalmente fuori contesto».

Quindi, c’era gente che conosceva?
«Una ragazza che lavora nell’editoria mi fa: noi ci siamo conosciuti in altro contesto. Un giovane scrittore di
cui non farò il nome è venuto a salutarmi calorosamente in gonnellina scozzese e tacchi alti. Per fortuna, non
mi sono lasciato andare e mi accompagnava il mio consorte».

Perché a 76 anni le interessano tanto i giovani?
«Forse, perché vivo attraverso di loro un’adolescenza mai vissuta. A 15 anni, ne dimostravo 40: non uscivo
mai, passavo la giornata a leggere. La cosa strana è che tengo a questi ragazzi, faccio il tifo per loro. Sto
cercando di capire se la fragilità che attribuiscono loro è vera. Nelle università americane ci sono safe zone
dove gli studenti possono rifugiarsi se l’argomento di una lezione li turba».

Alla fine, che idea si è fatto?
«Mi ostino a pensare che sono gli adulti ad aver bisogno di un’immagine così fragile dei ventenni perché, non
potendo migliorare il mondo, pensano: almeno, mi occupo dei miei figli. Come se fosse l’unica attività non
narcisistica che possano permettersi».

Dice di fare il tifo per i ragazzi, ma il protagonista del suo ultimo romanzo sterminerebbe mamme e bambini.
E lei, in Troppi Paradisi, scriveva «sono l’occidente perché detesto i bambini e il futuro non mi interessa».
«Intanto, i giovinotti e i bambini che metto nei miei libri sono un po’ anomali: piccoli geni, super intelligenti».

Ride. Chi le ricordano?

«Mi ricordano la maestra che il primo giorno di scuola mi mette alla lavagna e dice: scrivi casa, cassa, gnomo...
Poi: sciatore, soqquadro, scarabocchio... Un po’, i miei protagonisti più giovani, sono proiezioni mie. E poi
capisco quella specie di nichilismo, tipo “non me ne frega niente, andassero tutti a quel paese”. Lo capisco
perché non è lontano da me. Infatti, nei libri, mi sono sempre interessato degli aspetti più grotteschi del
neocapitalismo e del neoconsumismo ed è stato un modo per dire: vediamo come ci siamo ridotti, che mondo
abbiamo creato».

Figli ne ha desiderati?
«Prima del ’68, mi è capitato di aspettarne uno. Io avevo vent’anni e anche la ragazza e, soprattutto, io ero
omosessuale e lei lo sapeva. Ci hanno aiutato ad abortire i Radicali. Dopo, non ho più pensato di diventare
padre. Oggi, il mio consorte dice che ho sei anni e che il bambino sono io. Però, ho pianto quando ho letto il
finale de Gli sdraiati di Michele Serra. C’è il padre che, per tutto il libro, cerca di convincere il figlio a scalare
con lui il colle della Nasca e, quando finalmente vanno e si accorge che il figlio è in vetta, dice: ora, posso
diventare vecchio. Il fatto che quel giovane lo hai fatto tu e solo quando diventa indipendente puoi permetterti
di diventare vecchio mi ha commosso perché ho pensato che, allora, io vecchio non lo posso diventare mai. Io
sono condannato a essere un adolescente eterno».

Che cosa leggeva da ragazzino quando passava le giornate a leggere?
«Ho avuto un’educazione letteraria scombussolata. A dieci anni, avevo già letto La metamorfosi di Kafka e I
fratelli Karamazov di Dostoevskij. La mia era una casa operaia, libri non ce n’erano, ma li rubavo a mio cugino
più grande. Avendo letto precocemente, mi si era fissata nella testa l’idea che scrivere era inutile perché non
avrei mai eguagliato Tolstoj».

Quando a 47 anni scrisse Scuola di Nudo, con quel ritratto impietoso di se stesso e della sua passione per i
culturisti e dettagli feroci sui suoi colleghi professori dell’università di Pisa, gli amici dicevano che sarebbe
stato licenziato, sbeffeggiato. Perché, invece, pubblicò?
«Ci ho messo dodici anni a scrivere quel mio primo romanzo. Nell’86-87 era intervenuta una crisi. Preparavo
un saggio su Giacomo Leopardi e mi dissi: se continuo a fare il critico letterario, mi ammazzo, mi butto dalla
finestra».

Perché uccidersi?
«Non potevo occuparmi per tutta la vita di cose scritte da altri. O riuscivo a scrivere qualcosa che mi
interessasse davvero o tutto era inutile. Era questione di vita o di morte. La folgorazione fu che la cosa che mi
interessava davvero erano gli uomini nudi».

E come le venne questa folgorazione?
«Guardando la mia collezione di film porno, ero nella mia soffitta, a Pisa. Il colpo di fortuna intellettuale fu
capire che questo interesse così ossessivo aveva a che fare col rapporto con mia madre ed era legato a un
rapporto di potere fra me e gli altri uomini, quindi, a un discorso più pubblico, quello del desiderio su cui fa
leva il consumismo, dell’esplosione del corpo come merce. Questo rese il romanzo più presentabile».

La madre che c’entra?

«Ho avuto una mamma che mi reificava e, quando partivo, sveniva alla stazione per il dispiacere. Il corpo del
culturista ricorda quello delle donne degli anni ’50, vita stretta, glutei e petti imponenti, ma è privo della
voragine che mi può inghiottire, è un corpo materno senza pericoli».

Walter Siti: «Non sono mai stato adolescente, il mio partner dice che ho 6 anni. Quando misi incinta una
ragazza i radicali ci aiutarono ad abortire»
Siti mentre festeggia la vittoria al Premio Strega nel 2013

Questa ossessione c’è in tutti i suoi romanzi eccetto Resistere non serve a niente, che ha vinto il Premio Strega.
Un caso?
«Non credo. Era il libro più massificabile. L’ho considerato una sorta di premio alla carriera. Ma, alla fine, se
c’è una cosa di cui ho ossessivamente scritto per tutta la vita è il disagio di stare al mondo, la non appartenenza
al mondo di tutti. Mamma raccontava la mia nascita come una scena horror: nato in ritardo di 15 giorni,
podalico, uscì prima un piede e l’infermiera, per tirarmi fuori, si mise a saltarle sulla pancia. Sono cresciuto
con l’idea che non volevo venir fuori da lì. Ultimamente, ho riletto America di Kafka e mi sono immedesimato
nel ragazzo che va a New York e trova tutto incomprensibile, come se il mondo fosse un posto di farfalle, per
cui, a forza di fare l’entomologo, diventa un insetto».

E lei cosa diventerà?
«Spero di morire prima di saperlo».

Quando sarà pubblicato l’ultimo libro nella storia dell’umanità?
«Ho chiesto a ChatGPT di scrivere un incipit alla Carlo Emilio Gadda e uno alla Fabio Volo. Quello di Volo
era verosimile: parlava di un ragazzo in vespa, che pensava alle ragazze che l’avevano lasciato eccetera. Quello
di Gadda, non c’entrava niente con lui. ChatGPT non riuscirà mai a imitare Gadda perché, se presto avrà una
coscienza, sarà molto difficile che acquisti un inconscio. Già oggi, molti libri appartengono a categorie
retoriche: il patriarcato, il migrante e le fatiche di attraversare il mare... Cose talmente stereotipate che per
l’intelligenza artificiale non saranno difficili da riprodurre».

Quindi, l’ultimo libro nella storia dell’umanità?
«Mi piacerebbe che fosse quello di un giovane ribelle con la voglia di scrivere dei propri incubi e ossessioni.
Lo immagino scritto a mano, distribuito per strada mentre il ragazzo si dà alla macchia perché quei fogli sono
considerati molto disdicevoli».

 

[di Candida Morvillo, “Corriere della sera”, 27 marzo 2025].