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Mercoledì, 19 Luglio 2017 13:07

«Chiudersi e produrre senso proprio perché fuori ce n’era sempre meno»: recensione a "La stanza Profonda" di Vanni Santoni

Scritto da Paolo Manieri

Il libro narra le vicende di un ragazzo senza nome che trascorre una vita ordinaria in un paese di provincia fino a quando, grazie al padre, si avvicina a uno dei primi fenomeni di massa contemporanei, quello dei giochi di ruolo. In seguito si narra della sua ricerca di un solido gruppo di amici e del tempo trascorso a giocare insieme a loro, dai fedelissimi Silli, Bollo, Leia, Paride e Andre, ai tanti altri giocatori che hanno attraversato la stanza nel corso degli anni.

 

Si può essere certi che le cose immaginarie abbiano meno peso di quelle reali?

 

La stanza profonda a cui allude il titolo e di cui si narra nel corso delle pagine non è solo il teatro principale degli eventi, ma è anche il mezzo che unisce la realtà del gioco a quella della finzione narrativa. Essa permette al protagonista di attuare il gioco in modo concreto; fino alla sua scoperta, infatti, aveva solo sentito parlare dei luoghi dove una folta comunità di giocatori si riuniva per vivere memorabili avventure, ma tutto questo avveniva in una realtà ben lontana da quella della sua città. Dopo aver faticosamente riunito un gruppo di avventurieri disposti a seguirlo, il protagonista scopre di avere nel garage della casa dove ha sempre abitato un passaggio segreto che conduce alla suddetta stanza (in origine non era altro che un bunker ricolmo di provviste di ogni genere creato dal nonno negli anni cinquanta per difendersi da temuti attacchi nucleari). La scoperta, pertanto, coincide con quel plot point tipico delle sceneggiature, ed è descritta come quella di un vero e proprio dungeon, dove i giocatori si imbattono in temibili mostri da affrontare a colpi di d20, i famosi dadi a venti facce. Da quel momento in poi la stanza diventa a tutti gli effetti uno scrigno che al suo interno conterrà una moltitudine di narrazioni susseguitesi nel corso di più di vent’anni di gioco, e di cui il lettore ha la possibilità di leggere alcuni frammenti.

Ne La stanza profonda sono molti i momenti in cui la narrazione delle vicende si intreccia in modo concreto con le meccaniche dei giochi di ruolo; la voce narrante, infatti, sembra per alcuni tratti quella di un dungeon master, una sorta di 'deus ex machina', la voce che racconta il retroscena degli eventi, che descrive i luoghi in cui ci si sta per addentrare. Gli stessi amici che prendono parte alle sessioni di gioco sono descritti proprio come dei personaggi da interpretare, le cui caratteristiche sono minuziosamente riportate nelle rispettive schede del personaggio.

 

Le schede personaggio. Il loro essere un mix tra codice genetico e carta d’identità. Preludevano alla cultura di internet, ai social media come luogo di proiezione e ridefinizione dell’identità...

 

È interessante notare come il libro segua la struttura tipica di un romanzo di formazione (infanzia, scoperta, ricerca di sé, del proprio ruolo nel mondo e dei compagni con cui condividere delle esperienze), ma che allo stesso tempo ognuno di questi eventi “reali” sia sempre narrato in tono avventuroso, alla stregua di quanto accade nei mondi fantasy creati per le campagne di gioco: a partire dall’approccio ai GdR (acronimo per gioco di ruolo) da parte del protagonista avvenuto in un contesto di predestinazione (è il padre che porterà a casa il primo set base di Dungeons & Dragons), passando per il ritrovamento della preziosa wood grain edition all’interno di un baule/scrigno, fino ad arrivare all’incontro con l’ideatore del gioco, Gary Gygax.

Il libro non è semplicemente un sentito omaggio a una controcultura di cui anche Santoni ha fatto esperienza[1], ma cerca di inquadrare il “rituale” del Gdr in un contesto ben definito evidenziandone lo stretto legame e le influenze esercitate sia sul cinema che sull’emergente industria videoludica; addentrandoci nel libro apprendiamo che Gary Gygax e Dave Arneson hanno portato alla luce il primo Dungeons & Dragons nel 1974 (in una stanza solitaria come quella profonda giù nel garage del protagonista), e che da lì a pochi anni si diffonderanno a macchia d’olio, fino ad avere il momento di massima espansione negli anni novanta. Il cinema come viene inteso oggi deve moltissimo ai GdR, basti solo pensare all’esplosione delle serie TV che, pur con le dovute differenze, sono dei veri e propri film suddivisi in più “sessioni” (si pensi a Twin Peaks, Fargo e per certi versi anche a Breaking Bad). La lingua si è adattata alle abitudini, non è un caso che dalla fine degli anni novanta si tende a porre l’enfasi sulla serie piuttosto che sul telefilm, cioè sul singolo episodio facente parte di una serie. Ma è sicuramente il mondo dei videogiochi ad aver attinto a piene mani dall’immaginario e dalle meccaniche dei GdR da tavolo. Il termine GdR indica, ad esempio, un genere di videogioco; inoltre, gli stessi sviluppatori di videogiochi hanno sempre avuto la necessità di inserire una narrazione che facesse da sfondo alle vicende giocate, in modo da fornire delle motivazioni ai giocatori per dover compiere determinate azioni. La prima avventura testuale è Zork (1977), si passa poi per Richard Garriott con il suo Ultima (del 1980, più volte citato nel libro), fino ad arrivare alle avventure grafiche (i cosiddetti “punta e clicca”) degli anni novanta. Negli anni successivi il videogioco si avvicinerà sempre di più al cinema puntando sul realismo e spesso facendo uso delle cutscene (scene filmate e non interattive), come la serie fantapolitica di Metal Gear Solid o sui quick time event (sequenze in cui occorre premere dei tasti con il giusto tempismo), una meccanica già sperimentata negli anni ottanta con Dragon’s Lair (1983) e in seguito migliorata con prodotti come Shenmue (2000). Nonostante il settore tenda ad avvicinarsi sempre più a quello del cinema, sia per necessità di produzione (Detroit: Become Human di prossima uscita ha richiesto uno script di più di 2.000 pagine[2]) che per volume d’affari[3], le meccaniche dei GdR da tavolo non sono mai state abbandonate, infatti molti videogiochi attuali e in fase di produzione, come l’epopea sci-fi Mass Effect, fanno ampio uso delle scelte morali.

 

Ci ho pensato. Ma se devi scrivere un libro, le logiche del gioco di ruolo diventano inutili. Nei GdR chi gioca è fruitore e autore assieme, e solo quando è a sistema con gli altri.

 

Sulla questione della narrazione occorre dire che Santoni ha un approccio opposto a quello di un dungeon master: quest’ultimo legge e studia manuali per poter produrre materiale di gioco, mentre l’autore parte dall’esperienza del gioco per scrivere La stanza profonda. È davvero possibile scrivere un romanzo di ampio respiro a partire dai GdR? Moltissimi dungeon master si sono cimentati con la scrittura di romanzi, alcuni con risultati consistenti in termini di copie vendute, su tutti George R. R. Martin con la saga di Game of Thrones, ma anche l’italiana Licia Troisi ha iniziato a scrivere romanzi partendo dalle sue esperienze come master. L’intreccio tra l’esperienza di gioco e il suo significato porta a uno dei temi cardine del libro, il tempo:

 

L’impressione si fa più forte e ti schiaccia: chi è, oggi, costui, rispetto al profilo di quando è entrato nella stanza, chi sei tu per lui, oggi, cosa è successo in tutto questo tempo, chi siete diventati?

 

Così si esprime il narratore quando il protagonista decide di andare a trovare Andre, a distanza di alcuni anni da quando gruppo ha smesso di giocare; dove va a finire il tempo trascorso nella stanza, quegli anni di cui ci parlano i protagonisti e di cui si intravedono solo piccole schegge? Il rapporto col tempo e con i luoghi è descritto con dovizia, tanto che i due si trovano spesso a non coincidere. Il protagonista, nella prima parte, sembra trovarsi sempre nel momento giusto ma al posto sbagliato: vive il momento di ascesa e di massima diffusione dei giochi di ruolo, ma solo in modo indiretto, mentre le enormi comunità di giocatori e le loro campagne riguardano il cerchio esterno, il mondo oltre le mura. Difatti intorno a sé trova una realtà ben diversa: nessuno prende “il gioco” sul serio. Più avanti è la stanza stessa ad annullare o distorcere il corso del tempo rispetto a come viene ordinariamente misurato: infatti il tempo al suo interno non scorre alla stessa velocità del mondo esterno, il gruppo si ritrova a trascorrere interminabili ore in sessioni, mentre intorno a loro la città muta, il paesaggio si dirada, gli abitanti si allontanano. Quelle ore diventano improvvisamente anni nel momento in cui i giocatori sono portati dalle circostanze a uscire definitivamente dalla stanza buia.

Tra i ringraziamenti al termine spicca quello a Absolutely Nothing[4], un libro in cui si narra di come la natura, che rappresenta l’entropia crescente dell’universo[5], abbia trovato il modo di riprendersi dei luoghi che l’uomo aveva deciso di abitare e che per qualche motivo ha poi abbandonato; un concetto simile a quello del nulla che investe il mondo nel libro di Santoni, a cui ci si può sottrarre solo entrando nella stanza, solo affrontando ogni genere di pericolo attraverso la cooperazione.

 

Chiudersi e produrre senso proprio perché fuori ce n’era sempre meno

                                                                                                                 

[1] https://www.youtube.com/watch?v=eejPLrLnXcw

[2] https://www.polygon.com/e3/2017/6/14/15803834/detroit-become-humans-e3-2017-script-david-cage

[3] http://www.ilsole24ore.com/art/tecnologie/2017-05-11/i-videogiochi-italia-valgono-miliardo-82percento--100120.shtml?uuid=AEkDiKKB&refresh_ce=1

http://www.ilsole24ore.com/art/tecnologie/2012-04-05/videogiochi-kolossal-sbancano-cinema-081632.shtml?uuid=Ab9LVJJF

[4] Vasta, Giorgio; Fazel, Ramak; Absolutely Noting: storie e sparizioni nei deserti americani (Macerata, Quodlibet, 2016)

[5] Sui concetti di bassa e alta entropia si veda Rovelli, Carlo; L’ordine del tempo (Milano, Adelphi, 2017)